Obesità: che fare?

I pediatri di famiglia devono essere in prima linea
nella gestione dell’obesità per un approccio precoce
e un trattamento efficace.

Rita Tanas, Dante Ferrara,
Luciana Indinnimeo

direzione.areapediatrica@sip.it

Negli ultimi 40 anni si è registrato un aumento eccezionale dei bambini in sovrappeso/obesità: numerosi gli studi su cause e conseguenze psicofisiche, ma molto pochi sul trattamento; prevenzione e cura sono ancora una sfida! La terapia è ostacolata da molti fattori: dura molti mesi, il follow-up 2–3 anni e ciò rende difficile l’arruolamento di famiglie che completino lo studio.

Per affrontare precocemente una malattia così difficilmente reversibile i governi hanno chiesto ai pediatri di famiglia (PdF) di occuparsene, prima che si fosse dimostrata l’efficacia. In ambito di ricerca oggi è emersa un’evidenza di efficacia, pur non essendo chiaro quale sia il percorso per il ‘vero cambiamento’ dello stile di vita e le azioni per il PdF, vero primo attore dell’intervento. Nelle cure primarie, invece, nel 2008 (Brown I) una revisione suggeriva un approccio olistico e grande prudenza, una successiva (Sargent GM, 2011) proponeva percorsi educativi o di counseling di motivazione, formazione e coinvolgimento primario del PdF. Altre revisioni dopo hanno trovato pochi studi di qualità ridotta: pochi pazienti, seguiti per tempi brevi, senza o con piccoli risultati, valutati con metodiche diverse e difficilmente confrontabili, senza valutazione degli effetti avversi. Le LG 2015 in Canada hanno così ridotto i compiti del PdF a valutazione e adeguata comunicazione della diagnosi e delle possibilità di cura presso team multidisciplinari alla famiglia, informandola dell’incertezza di esito.

In linea con ciò, anche la revisione di Sim LA 2016 che, trovando soli 10 studi, per lo più basati sul Conselling di Motivazione, con tutti i limiti già segnalati, ed un calo significativo del BMI z-score dopo 1 anno di appena 0,04, conclude che in attesa di cure più efficaci sarebbe meglio usare diversamente le risorse.

In Italia, nazione in cui la presenza del PdF avrebbe potuto essere un punto di forza contro l’epidemia, una tale affermazione costituisce una resa senza condizioni.

In un commento alla revisione la dott.ssa Armstrong SC (2016) si domanda se l’andamento del BMI z-score sia un indice di successo adeguato, o se un cambiamento dello stile di vita non porti comunque un miglioramento di morbilità e mortalità. Così di fatto mette in dubbio la visione pessimista di Sim sui risultati e l’opportunità dell’utilizzo di risorse per ottenerli.

Gli studi randomizzati sull’obesità non sono etici. Già la richiesta del consenso è stigmatizzante. Molti lavori confrontano perciò vari trattamenti, per non lasciare i bambini senza cura e le poche ricerche concluse con numeri di risultati valutabili, dicono che i vari trattamenti hanno dato risultati sovrapponibili, come era prevedibile con follow-up così breve e outcome limitato al BMI z-score. Il mantenimento dello z-score non è considerato significativo dallo statistico, che cerca differenze e ne ignora l’aumento dalla nascita in poi nella popolazione generale, vero ‘gruppo di controllo’. In queste condizioni, aggiungendo che l’obesità non è considerata neppure malattia, svolgere studi di qualità richiede un finanziamento che è mancato. Ipotizzare la nascita di trattamenti più efficaci in un’area in cui prevale la voglia di professionisti e pazienti di mollare tutto, ci sembra un modo per mettere a tacere le coscienze e arrendersi agli interessi delle multinazionali.

Con Armstrong ci chiediamo se noi pediatri vogliamo davvero smettere di provarci: cioè rinunciare a fare diagnosi, a comunicarla in modo da suscitare ‘motivazione al cambiamento’, e a sostenere i piccoli risultati di cambiamento (come la terapia comportamentale richiede) dei tanti genitori che ci seguono, nella speranza che con il tempo migliori la salute, con o senza riduzione del BMI z-score.

L’obeso è pur sempre il miglior cittadino di una società fondata sui consumi!