Vitamina D:

tra evidenza e malpractice

Tema dibattuto e controverso: sulla vitamina D, la sua carenza e la sua supplementazione sono numerose le raccomandazioni e le evidenze. Ma non sempre chiare.

Antonio Corsello,

Carlo Agostoni

Università degli Studi di Milano

Identificata nel 1922 da Elmer McCollum come la molecola responsabile della deposizione del calcio nelle ossa, la vitamina D è oggi al centro del dibattito scientifico per via della sua influenza in molti meccanismi di salute e processi biochimici, a volte dimostrati o altre, più frequentemente, solo presunti. In più, se da un lato abbondano sugli scaffali di farmacie e supermercati integratori nelle più svariate formulazioni, non sempre sono chiare raccomandazioni ed evidenze in merito alle effettive necessità di integrazione nelle diverse fasce di età pediatrica.

Al deficit di vitamina D è quindi stata attribuita in questi anni una partecipazione nelle più svariate condizioni patologiche, dalla malattia allergica all’asma, fino ad essere correlato persino a patologie immunomediate quali il diabete o le malattie infiammatorie croniche intestinali. Gli effetti benefici della vitamina D sul sistema immunitario in corso di infezioni come quelle da Mycobacterium tuberculosis sono tuttavia ben noti da tempo, grazie alla sua capacità di modulare le risposte di monociti e macrofagi, la produzione di interleuchine e la differenziazione linfocitaria.




Inoltre, sebbene siano in realtà sempre più rari i casi descritti di rachitismo e manifestazioni cliniche da carenza sintomatica di vitamina D, molti sono i paper che negli ultimi anni hanno mostrato alti tassi di carenza di vitamina D (misurata come concentrazione di 25-idrossicolecalciferolo, 25(OH)D) nella popolazione pediatrica, con valori che oscillano mediamente in Italia tra il 40% il 75%.1

Sarebbe quindi doveroso compito del pediatra e del ricercatore chiedersi se e come possa un deficit essere concretamente corresponsabile di tante malattie tra loro così diverse, soprattutto nel medio-lungo termine. A ciò si aggiunge spesso una scarsa conoscenza e applicazione da parte delle famiglie e dei clinici di quelli che sono i reali valori di riferimento dell’ipovitaminosi, probabilmente a causa dell’ambiguità legata all’utilizzo scorretto di termini come “carenza”, “deficit”, “sufficienza” e “insufficienza”.

Il valore soglia riconosciuto dalla gran parte delle società scientifiche internazionali per parlare di ipovitaminosi (e quindi di “deficit” o “carenza”, concetto ben diverso da quello di insufficienza) è pari a 20 ng/mL (circa 50 nmol/L), sebbene siano considerati “sufficienti” (e quindi auspicabili) valori superiori ai 30 ng/mL (75 nmol/L) (Tabella 1). Inoltre, ad eccezione dei soggetti a rischio di ipovitaminosi o di coloro che, per necessità o per inadeguato intake dietetico, potrebbero necessitare di una supplementazione, non è raccomandato alcuno screening dei dosaggi di 25(OH)D, né tantomeno una arbitraria e non giustificata somministrazione esogena.

Volendo entrare nel merito delle effettive raccomandazioni pratiche per la supplementazione di vitamina D in età pediatrica, la Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (SIPPS) ha redatto una Consensus su questo tema, confermando una forte raccomandazione alla profilassi con vitamina D in tutti i bambini nel primo anno di vita, al fine di prevenire un possibile rachitismo carenziale a fronte dell’apporto insufficiente dato dal latte materno, così come in relazione al variabile fabbisogno idrico del lattante e alla differente concentrazione del micronutriente nelle varie formule1. È stato, infatti, stimato che il latte formulato sia in grado di fornire appropriate quantità di vitamina D (400 UI/die) solo una volta raggiunta una assunzione media di almeno un litro di latte al giorno, o a seguito del raggiungimento di un peso corporeo del bambino di almeno 6 kg. Non vi è inoltre alcuna differenza provata tra la somministrazione della vitamina nelle sue formulazioni D2 e D3. Dosaggi superiori alle 400 UI/die non hanno poi mostrato differenze significativa nei tassi di sufficienza di vitamina D e sullo stato di salute ossea nel primo anno della vita.2

Tuttavia, in considerazione dei bassi livelli di compliance nella somministrazione quotidiana di vitamina D riscontrati in varie popolazioni, è stato mostrato come approcci alternativi di supplementazione basati su somministrazioni ad alte dosi (fino a 6400 UI/die) date direttamente alle madri che allattano in modo esclusivo, così come somministrazioni mensili di 50.000 UI date al neonato e al lattante si siano dimostrate sicure e altrettanto efficaci nel mantenimento di livelli sierici adeguati di 25(OH)D.2 Nei nati pretermine, infine, la Società Europea di Gastroenterologia, Nutrizione ed Epatologia Pediatrica (ESPGHAN) consiglia una profilassi con 800-1000 UI/die (evitando un dosaggio pro kg) per i primi mesi di vita, al fine di correggere rapidamente i ridotti livelli fetali di 25(OH)D.3

Dopo i 12 mesi di vita le evidenze cominciano però a essere meno chiare e univoche. Le linee guida italiane raccomandano di valutare lo stile di vita nei singoli pazienti, al fine di correggere eventuali fattori di rischio modificabili, con particolare riguardo verso gli adolescenti, in virtù delle loro aumentate necessità legate alla crescita scheletrica.4 L’eventuale somministrazione è quindi indicata solo in casi di scarsa esposizione solare o in specifiche condizioni (e.g., insufficienza renale o epatica, terapia con antiepilettici, immobilizzazione permanente, fototipi particolarmente scuri, diete vegane).1 In merito alla possibile somministrazione di alimenti fortificati nella prima infanzia, ad esempio, un trial randomizzato condotto in Germania su bambini di età compresa tra i 2 e i 6 anni ha dimostrato come il consumo di latte fortificato con vitamina D possa rappresentare una misura nutrizionale sicura e significativamente efficace nel prevenire e ridurre i tassi di insufficienza 25(OH)D nei periodi di ridotta esposizione alla luce solare.5

Sebbene infine siano poche le segnalazioni di possibili danni da somministrazione esogena di vitamina D, come nei casi di possibili mutazioni del gene della 24-idrossilasi (che normalmente inattiva la vitamina D in eccesso) o in sporadici casi di sovradosaggio protratto nel tempo da parte di genitori eccessivamente apprensivi, possibili quadri di ipercalcemia e ipercalciuria potrebbero manifestarsi, con una conseguente nefrocalcinosi.6 Casi di intossicazione da vitamina D sono stati descritti per livelli sierici superiori ai 150 ng/mL.7

È doveroso ribadire come i livelli di vitamina D possano significativamente variare a seconda dello stile di vita e della complessiva esposizione ai raggi UVB, la quale risente soprattutto di fattori come localizzazione geografica, età, fototipo cutaneo e abitudini familiari. In neonati e lattanti altri fattori che possono influire sullo stato vitaminico sono rappresentati da stagione di nascita, eventuale profilassi materna in gravidanza, tipo e qualità dell’allattamento e, non per ultimo, stato socioeconomico familiare. Un altro importante capitolo è rappresentato dal paziente obeso, il quale, in condizioni di ridotta esposizione solare e in virtù della natura lipofila della vitamina D, potrebbe necessitare di quantità superiori di vitamina D, anche superiori alle 1500 UI/die.

In conclusione, come confermato anche dall’ESPGHAN, tutti i bambini nel primo anno di vita dovrebbero ricevere un’integrazione orale di 400 UI/die di vitamina D (o comunque supplementazione alternative in grado di fornire quantità equivalenti) al fine di raggiungere concentrazioni sieriche minime di 25(OH)D di 20 ng/mL. Oltre questa età, le variabilità stagionali, geografiche e culturali andrebbero sempre considerate dal clinico e dalle Società scientifiche nel raccomandare o meno la necessità di una supplementazione. Uno screening dei livelli di vitamina D andrebbe pertanto effettuato solo nei soggetti considerabili a rischio di una possibile ipovitaminosi, nell’ottica di capire quando potrebbero essere necessarie eventuali somministrazioni di integratori nei mesi invernali o di latti fortificati, quando indicati.

Gli autori dichiarano di non avere

alcun conflitto di interesse.

Bibliografia

1. Saggese G, Vierucci F, Prodam F, et al. Vitamin D in pediatric age: consensus of the Italian Pediatric Society and the Italian Society of Preventive and Social Pediatrics, jointly with the Italian Federation of Pediatricians. Ital J Pediatr 2018; 44: 51.

2. Corsello A, Milani GP, Giannì ML, Dipasquale V, Romano C, Agostoni C. Different vitamin D supplementation strategies in the first years of life: a systematic review. Healthcare 2022; 10: 1023.

3. Perrine CG, Sharma AJ, Jefferds MED, Serdula MK, Scanlon KS. Adherence to vitamin D recommendations among US infants. Pediatrics 2010; 125: 627-32.

4. Savarino G, Corsello A, Corsello G. Macronutrient balance and micronutrient amounts through growth and development. Ital J Pediatr 2021; 47: 109.

5. Hower J, Knoll A, Ritzenthaler KL, Steiner C, Berwind R. Vitamin D fortification of growing up milk prevents decrease of serum 25-hydroxyvitamin D concentrations during winter: a clinical intervention study in Germany. Eur J Pediatr 2013; 172: 1597-1605.

6. Dinour D, Beckerman P, Ganon L, Tordjman K, Eisenstein Z, Holtzman EJ. Loss-of-function mutations of CYP24A1, the vitamin D 24-hydroxylase gene, cause long-standing hypercalciuric nephrolithiasis and nephrocalcinosis. J Urol 2013; 190: 552-7.

7. Vogiatzi MG, Jacobson-Dickman E, DeBoer MD. Drugs, and therapeutics committee of the Pediatric Endocrine Society. Vitamin D supplementation and risk of toxicity in pediatrics: a review of current literature. J Clin Endocrinol Metab 2014; 99: 1132-41.