Il Professor Lorenzo Pavone, Maestro di Pediatria Università di Catania

Catania, giugno 2021

Gemma Incorpora Lucenti

È stato il mio maestro e il mio mentore.

Ammirava molto mio padre artista, anche quando pochi lo conoscevano e questo mi inorgogliva.

Ci sentiamo spesso ora che siamo ambedue avanti negli anni e quando ho un dubbio o una certezza, mi piace condividerli con lui.

Lo conobbi per la prima volta quando avevo ventitre anni e lui ne aveva trentotto, ma ne dimostrava già di più. In fondo non eravamo distanti come età ma la differenza era la sua crescente provata notorietà e la mia nullità. Mi affacciavo appena alla vita.

Con il Professore Pavone ho preparato la mia tesi di laurea.

Forse ridimensiono troppo, ma lui aveva già capito che tutto stava cambiando, nessuna aureola di grandezza, nessuna aria da cattedratico, semplicemente il professore che fa fare lunghe attese, ti trascina da un piano all’altro, biblioteca, reparto, stanza del direttore e infine il suo incredibilmente piccolo, disordinato studio per iniziare a lavorare.

Era quello che si può definire un buco. La scrivania straripante di libri, carte, polvere, matite, la fatidica gomma per cancellare. I lavori che ci dettava dovevamo scriverli a matita, per poter cancellare i cambiamenti e i ripensamenti, per le correzioni quindi. Diapositive sparse dentro e fuori dai contenitori, il fonendoscopio e il martelletto. Un armadietto a vetrinetta, archivio d’immagini pazientemente raccolte e fotografate da Giovanni Sorge, di pazienti con patologie rare e appoggiata nell’angolo la preziosa macchina fotografica: una buona Canon. Sull’anta che chiudeva l’armadio la foto di Einstein con la formula della relatività e di Marilyn Monroe, quella famosa di quando il vento le alza il vestito plissettato e mette in luce lo splendido sorriso e le sue magnifiche gambe. A lui però piaceva di più Audrey Hepburn.

In questa stanza per tanto tempo e per tanti anni, io, specializzanda, ho dettato e poi corretto lavori scientifici, lettere, programmi di congressi. In questa stanza lunghe discussioni con allievi e colleghi su tematiche scientifiche, riflessioni, dubbi, incertezze e certezze, ma anche sport o musica o arte o politica. Poi a sera tardi, al momento del rientro cominciavano parole e riflessioni con i suoi colleghi, che solo con il tempo imparavo a capire. Erano riflessioni attente e mordaci sulle giovani, belle e future pediatre, donne che avevano finalmente monopolizzato la Pediatria, fino a pochi anni prima esclusivo territorio maschile. Oggi quelle affermazioni potrebbero apparire imprudenti, allora erano ordinaria fisionomia di un tempo durante il quale noi donne avevamo da lavorare sodo per conquistarci spazi, fiducia e notorietà.

La signora Renata Rizzo fu per tanto tempo a fianco di lui e di tutti noi, sostenendoci con la sua dolcezza, la sua capacità organizzativa e di relazioni pubbliche diventando supporto prezioso nei momenti più difficili. Dopo la sua molto prematura morte, molto è cambiato.

Con lui ho conosciuto nomi che è restrittivo chiamare storici, sono nomi che leggevo solo nei libri e che mai avrei immaginato di conoscere, grandi maestri della Pediatria mondiale, genetisti, ematologi, neuropediatri, provenienti dalle parti più disparate del mondo. In quegli anni settanta il professor Pavone frequentava gli Stati Uniti d’America, Paese verso cui dimostrò sempre particolare simpatia. Si recò spesso lì, con la Signora Renata e i loro bambini, Vito e Piero, ancora piccoli, anche per periodi piuttosto lunghi. In alcuni di questi viaggi lasciò i pazienti del suo studio privato alla mia custodia e ciò fu per me motivo di grande orgoglio.

Bello il rapporto che aveva con le riviste nuove, con i libri scientifici e con la magnifica, ricca e indimenticabile biblioteca che era in Clinica Pediatrica.

Non si fermava mai a studiare o a leggere un articolo di rivista o un libro in biblioteca, preferiva portarli nella sua stanza con una velocità incredibile e con una simpatica battuta li sottraeva alle bibliotecarie che finivano spesso per non accorgersene nemmeno. La rivista o il libro rimanevano per giorni sul suo tavolo fin quando chiedeva a qualcuno di noi di riportarli in biblioteca. Quando si perdeva un fascicolo di rivista o un libro il posto giusto dove cercarli era sempre la sua scrivania.

La biblioteca era per lui soprattutto il luogo della posta. La posta a quei tempi: si aspettava con ansia. Alcune risposte si attendevano per giorni, settimane, mesi. Un articolo di qua uno di là dal mondo. La portava e la spediva il signor Biondi o, come lo chiamava il professor Pavone, compare Bio’. Non ho mai conosciuto una persona più corretta, più simpatica e più paziente del signor Biondi.

I libri scientifici che più gli servivano e lo interessavano, o quelli che gli avevano regalato e dedicato i colleghi illustri, li teneva nella sua personale libreria e ne era gelosissimo. Era la sua una piccola libreria drammaticamente carica di libri e in alto di carpettoni contenenti i suoi lavori scientifici in stampa e la bibliografia usata per fare il lavoro cioè tutti gli articoli in stampa che gli erano serviti.

Ho un ricordo speciale di quella libreria. Quando gli comunicai, in una sera dicembrina, che mi sarei sposata, il professore stava mettendo a posto un libro e quindi mi dava le spalle. Avevo scelto ad hoc quel momento, perché ero molto in ansia e non volevo guardarlo in volto. Lui diede un colpo talmente netto al libro che questo entrò dritto e in fondo nel ripiano alto della libreria pur non avendo moltissimo spazio. Poi si girò di scatto e mi disse: “con chi?”.

Il professor Pavone era drammaticamente moderno. Un giorno arrivò in reparto dispiaciuto. In quegli anni eravamo in pochi in reparto, talora solo io, Agata Fiumara e Francesco Prato e anche gli specializzandi nuovi erano pochi perché i reparti preferiti e modaioli erano altri.

“È morta Maria Callas” disse, era il settembre del ’77. Non sapevo che fosse esperto di musica classica. Non sapevo che avesse una grande collezione di vinilici, oggi tanto in auge. In quell’occasione imparai a capire il rispetto per la morte di un “grande” chiunque fosse, da parte di un altro “grande”, ero in un ospedale e non avrei mai immaginato di impararlo lì.

Abbiamo lavorato tanto in reparto, a visitare bambini, a fare diagnosi. Lui ci induceva a ragionare con il nostro pensare e con le nostre conoscenze, ci incuteva dentro il dubbio e la critica e negli anni novanta eravamo diventati tanti a seguire la sua particolarissima visita. Non eravamo noi “a fare il codazzo”, ma erano i piccoli pazienti a venire da noi accompagnati dalla loro mamma e intorno a un lettino li aspettavamo uno alla volta. Momenti di grande comunione e condivisione e, non rare volte, di grande ilarità a causa della enorme distrazione del professore. Visitava, ci insegnava a visitare e a leggere sul corpo di ogni paziente anche il minimo segno, era come mio padre che, da appassionato di archeologia, mi insegnava a leggere le pietre. Alla fine, in un giro di valzer particolare e impegnativo chiedeva ad ognuno di noi la diagnosi..

Quando dopo anni, mi accorsi di pensare spesso come il mio professore, mi sembrò strano, in realtà il miracolo era avvenuto, il passaggio di conoscenze e di analisi dall’insegnante all’allieva si era materializzato.

Con lui, ancora giovanissima, ho conosciuto scienziati al pari del grande Hans Zellweger (quello della sindrome di Zellweger) che, ormai avanti negli anni, era in visita in Clinica, Guido Fanconi (quello dell’anemia di Fanconi), Jean Aicardi (quello della sindrome di Aicardi) e poi Joseph Bellanti, Mary Coleman, Dorryl De Vivo, Bill Dobyns, Judith Hall, Cesare Lombroso, Giuseppe Pampiglione, Angela Vincent, Michael Privitera, Gilles Lyon, e altri tanti; e ancora il grandissimo John Opitz, genio della dismorfologia, di cui conserviamo tutti un ricordo speciale per la grande dolcezza con la quale ci ha insegnato l’approccio e la visita al paziente piccolo ma con patologie neurologiche gravi.

Ordinario di Pediatria, Presidente, per due mandati, della Società di Neurologia Pediatrica Italiana di cui era anche socio fondatore, direttore della Scuola di Specializzazione in Pediatria e direttore di Dipartimento. Fondatore della scuola di specializzazione in Neuropsichiatria infantile. Membro del Consiglio Superiore di Sanità. Con Martino Ruggieri e con un folto gruppo di altri suoi allievi ha voluto e abbiamo scritto il volume di Neurologia Pediatrica che è stato per anni unico testo italiano disponibile e in uso nelle varie Università. È stato nominato nel 2015, dal Professore Giovanni Corsello, Maestro della Pediatria Italiana.

C’è un tempo per ogni cosa. Mi sembra bello oggi parlare con lui di altro. Delle “cose” di mio padre, di quello che faccio al di fuori della Pediatria, dei colleghi vecchi e di quelli nuovi ed emergenti. Dell’Università, grande suo imprescindibile amore.Della sua splendida famiglia, di mio figlio che, ironia del tempo, è allievo di suo figlio.

Di Maria Renata, la sua seconda nipote, che canta benissimo e ama molto la musica, ha una voce come quella degli angeli e non è certo un caso.

I geni dell’arte vanno più veloci di quelli della scienza?

Siamo carne, muscoli, ossa, mente e geni che si mescolano e si ripetono, caparbiamente si ripetono