Interferenti endocrini e salute del bambino:

interrogativi aperti e ruolo del pediatra

In età evolutiva si è maggiormente esposti agli inquinanti ambientali,
da qui l’importanza per il pediatra di una formazione specifica sugli interferenti endocrini.

Sergio Bernasconi

Professore ordinario di Pediatria, Microbiome Research Hub, Università di Parma

Negli ultimi anni numerose ri­cerche sono state indirizzate a meglio comprendere le possibili correlazioni tra inquinamento ambientale e stato di salute sia nella popolazione in generale sia soprattutto nei soggetti in età evolutiva.

I bambini costituiscono infatti una popolazione molto sensibile, particolarmente nei primi anni di vita, per varie ragioni: le quantità di aria, di acqua e di cibo introdotte nel loro organismo, per unità di peso corporeo, sono maggiori rispetto a quelle dell’adulto; la barriera emato-encefalica non è ancora completamente matura e ciò li rende più sensibili al danno neurologico; la cute è maggiormente permeabile; passano la maggior parte del lor tempo nelle abitazioni, negli asili e nelle scuole e sono maggiormente soggetti al contatto con gli interferenti endocrini (IE) (endocrine disruptors, EDCs) dispersi nell’aria; soprattutto i più piccoli sono spesso a contatto con terreno e pavimento e hanno l’abitudine di succhiare giocattoli o oggetti che possono contenere IE. Inoltre, durante l’età evolutiva, i sistemi biologici e gli organi sono in diverso stadio di maturazione e funzionalità e ciò rende meno efficace il sistema di detossicazione.

È perciò importante che i medici, in particolare i pediatri, ricevano una più accurata e approfondita formazione in questo settore in modo da poter svolgere al meglio un’opera di corretta informazione delle famiglie che a loro si rivolgono e, più in generale, di prevenzione primaria.1 Questa azione è di particolare importanza anche perché indagini su campioni di popolazioni hanno confermato un basso grado di conoscenza e consapevolezza dei possibili rischi che l’inquinamento comporta.

Tra gli inquinanti ambientali un particolare sviluppo hanno avuto le ricerche sugli IE di cui esistono varie definizioni: l’Organizzazione Mondiale della Sanità considera tali le sostanze esogene o le loro miscele che siano in grado di alterare la/le funzione/i del sistema endocrino e di conseguenza causare effetti avversi in organismi intatti o nella loro progenie o in specifiche (sub) popolazioni. L’Endocrine Society (la più importante società scientifica di endocrinologia a livello mondiale) con tale termine fa riferimento a sostanze chimiche esogene (non naturali) o a una miscela di esse che interferiscono con ogni aspetto dell’azione ormonale.

Presenza degli interferenti endocrini nell’ambiente

Secondo alcune stime dalla fine della Seconda guerra mondiale sono state prodotte 140.000 sostanze chimiche, con una media annuale di 1000-2000, di cui circa 800 note o sospette di interferenza endocrina. Soltanto una parte di esse è stata ampiamente e sistematicamente studiata.

Sono sostanze di produzione industriale (esistono anche IE naturali quali i fitoestrogeni qui non considerati), che si possono ritrovare in oggetti di uso quotidiano, nel vestiario, nei farmaci, in alcuni presidi sanitari, nei disinfettanti, nei cibi e loro contenitori, nell’arredamento e nel materiale di costruzione, nei cosmetici e prodotti per la cura della persona, nei giocattoli e con cui sia l’uomo sia gli animali vengono spesso in contatto.

Tra gli IE più studiati (Tabella 1) si possono ricordare, a titolo di esempio, per meglio comprenderne l’ampia diffusione:




· bisfenolo A (BPA) – viene usato: a) nella produzione di policarbonati utilizzati in oggetti a contatto con gli alimenti (posate, piatti, contenitori per distributori di acqua potabile) ma anche in giocattoli e cellulari; b) nelle resine epossidiche presenti nei rivestimenti interni delle scatole di conserva e delle lattine per bevande, nelle schede di circuiti stampati e negli apparecchi elettronici; c) come additivo nelle plastiche PVC (cavi, pneumatici), stabilizzatore nei liquidi dei freni, componente nelle resine per le cure dentarie; d) come sviluppatore di colore nelle carte termiche (scontrini, biglietti per i mezzi di trasporto, ricevute bancarie o biglietti per i parcheggi); e) per la fabbricazione di alcune plastiche utilizzate per imballaggi. Inoltre può essere presente in apparecchiature elettriche, elettrodomestici, apparecchiature mediche, vestiti, automobili;

· ftalati – sono ampiamente utilizzati come plastificanti in quanto la loro presenza nel materiale plastico (soprattutto polivinilcloruro, PVC) lo rende più flessibile e dilatabile migliorando l’uso degli oggetti da cui è composto. Li si ritrova in pellicole di vario genere, in materiale per l’edilizia quali vernici, rivestimenti per pavimenti, tubi, cavi. Hanno svariati impieghi come lubrificanti, agenti antischiuma, solventi. Li ritroviamo anche in prodotti per l’igiene e la cura personale quali smalti per le unghie, spray per capelli, cosmetici, profumi. Infine, possono essere presenti in pesticidi e anche nel rivestimento gastroresistente dei farmaci;

· sostanze perfluoro alchiliche (PFAS) – prodotte in grande quantità fin dagli anni Cinquanta sono caratterizzate da catene di atomi di carbonio legati ad atomi di fluoro e ad altri gruppi funzionali. Le classi più diffuse sono il PFOA (acido perfluoroottanoico) e il PFOS (perfluorottanosulfonato) che, anche se gradualmente eliminate dalla produzione, sono ancora rintracciabili data la loro lunga persistenza nell’ambiente perché resistono all’idrolisi, alla fotolisi e alla degradazione microbica. Vengono soprattutto utilizzate nell’industria tessile, conciaria e cartaria come trattamento idrorepellente e antimacchia nelle schiume antiincendio e nelle padelle antiaderenti;

· pesticidi – vengono anche definiti come agrochimici e generalmente suddivisi in classi in base alla finalità del loro uso. Le più importanti sono quelle degli erbicidi, insetticidi, fungicidi e rodenticidi. I primi sono soprattutto usati in campo agricolo mentre gli altri hanno un impiego più vasto comprendente gli ambienti domestici, commerciali e industriali e i mezzi di trasporto.

Una citazione particolare tra questi meritano: a) il DDT perché, nonostante l’uso ne sia stato vietato, viene ancora utilizzato in alcuni Paesi e se ne possono trovare ancora tracce data la sua lunga permanenza ambientale; b) il clorpirifos, un organofosfato usato per combattere vermi e insetti, perché oggetto di una pluriannuale battaglia legale che ha recentemente condotto la sua sospensione per usi agricoli nell’arco di 6 mesi negli USA e il divieto di commercializzazione in Francia ed Austria. È un esempio della difficoltà a trovare, in modo trasparente, un equilibrio tra produzione, ricerca scientifica e autorità legislative.2

L’ampia utilizzazione di IE in vari settori spiega la loro diffusione ambientale:

1. nell’atmosfera – vi giungono dalla combustione dei rifiuti, dalle emissioni delle automobili, dalla volatizzazione di pesticidi ed erbicidi, dall’uso di spray per uso cosmetico, dall’aderenza degli IE alla polvere e al particolato. Sono stati rilevati sia nell’aria esterna sia in quella interna delle abitazioni e delle scuole in cui, in particolare, sarebbe auspicabile uno studio più approfondito. Recenti ricerche preliminari in Francia hanno infatti evidenziato tassi non trascurabili di alcuni IE tra cui gli ftalati;

2. nell’acqua – gli IE possono essere presenti sia nelle acque di scarico di abitazioni, ospedali, strutture commerciali, agricole, industriali (anche perché non sempre i sistemi di filtraggio riescono ad eliminarle) sia nelle acque chiare di superficie e in profondità;

3. nei mari e oceani – per esempio, la presenza di ritardanti di fiamma è stata recentemente descritta nell’acqua di mare, nei sedimenti lungo le coste, nei sedimenti oceanici dal Pacifico al Mar Artico;

4. nel suolo – sono presenti perché giunti attraverso gli spostamenti nell’atmosfera oppure per dispersione di rifiuti non correttamente raccolti e riciclati oppure, nelle terre coltivate, da residui di pesticidi.

Presenza degli IE
nell’organismo umano

La presenza nel nostro organismo è documentata da numerose esperienze raccolte negli anni in vari Paesi di vari continenti. Già nel 2003 i Centers for Disease Control statunitensi riferivano che gli americani di tutte le età avevano accumulato nel proprio corpo oltre 116 sostanze chimiche di origine esogena.

Nell’ultimo biennio (2020-2021) alcune pubblicazioni rendono bene l’idea di come gli IE siano presenti in modo ubiquitario.

Una metanalisi che prende in considerazione 15 ricerche eseguite su oltre 28.000 adulti (abitanti in Paesi europei – tra cui l’Italia –, in USA, in Israele e in vari Stati asiatici) conferma il riscontro di BPA nelle urine di oltre il 90% dei soggetti studiati. Uno studio coreano ritrova il BPA nelle urine di lattanti di 9-15 mesi. Una review di ricerche condotte in vari Paesi africani evidenzia una significativa presenza di BPA nelle urine di bambini (2-18 anni) e adulti (21-59 anni). In una coorte di oltre 600 adulti danesi seguiti nel tempo il BPA, alcuni parabeni e alcuni metaboliti degli ftalati sono risultati presenti in una percentuale variabile da 84 a 100%. Metaboliti di insetticidi piretroidi sono presenti in oltre il 70% di un campione di individui di una popolazione urbana polacca.

Vie di accesso
all’organismo umano

Gli IE possono giungere nel nostro organismo per via orale, respiratoria e cutanea. In linea generale la via orale viene considerata la più importante per la possibile presenza di IE in acqua contaminata e nei cibi sia per contaminazione diretta sia per migrazione dai cosiddetti “Food Contact Materials (FCMs)”, materiali che vengono in contatto con gli alimenti durante la produzione, l’imballaggio, il trasporto, lo stoccaggio, la loro elaborazione in cucina e la modalità con cui vengono serviti.3 Sappiamo ancora troppo poco sul ruolo degli FCMs e vi è la necessità di approfondire questo aspetto. Basti ricordare che sono state identificate 175 sostanze chimiche che potrebbero migrare e oltre la metà degli additivi di cui è permesso l’uso negli USA manca di appropriati studi tossicologici.3

Anche sul passaggio transdermico abbiamo la necessità di aumentare le nostre conoscenze. In una recente revisione dei dati noti sull’uso dei parabeni, contenuti in molti cosmetici, si conclude che una significativa percentuale della popolazione usa tali prodotti cosmetici in quantità eccessive e non si può escludere che ciò comporti danni alla salute e che questo problema riguardi particolarmente bambini, adolescenti e neonati la cui cute è più sensibile e in cui l’uso di queste sostanze viene stimato essere maggiore che negli adulti.4

Influenza sullo stato di salute
e possibili meccanismi d’azione

Nonostante negli ultimi 5 anni risultino re­censiti in Pubmed (la più importante banca dati di ricerche di interesse medico) oltre 4.000 pubblicazioni in gran parte riferentesi al possibile rapporto tra presenza degli IE nei nostri organismi e causa o rischio di malattia, non è facile dare risposte definitive come testimoniato da un dibattito che dura da vari decenni,5 da una serie di limiti metodologici noti6 e da un’ampia revisione critica che si propone di classificare e di tener conto a livello clinico della “forza” delle evidenze7 (Tabella 2).







I meccanismi con cui gli IE alterano l’equilibrio ormonale o omeostatico in generale sono in parte noti da molti anni e in parte frutto di scoperte molto più recenti.

Inizialmente le ricerche si erano focalizzate sull’azione diretta che gli IE possono svolgere a livello dei recettori ormonali del nucleo cellulare mimando o antagonizzando gli effetti degli ormoni steroidei (estrogeni e androgeni). Gran parte dei lavori originari era quindi concentrata sulla possibile iper-estrogenizzazione da un lato o ipo-androgenizzazione dall’altro. Ne è un esempio classico la cosiddetta sindrome di disgenesia testicolare secondo cui la riduzione di attività androgenica durante la vita fetale è responsabile sia di anomalie anatomiche dei genitali esterni maschili (ipospadia, criptorchidismo) sia di una diminuzione della fertilità e di un maggior rischio di carcinoma testicolare in situ.

A questo tipo di azione, che resta sempre di importanza fondamentale, se ne sono aggiunte altre con il progredire degli studi. È stato dimostrato che gli IE possono agire anche su recettori steroidei non presenti nel nucleo, su recettori non steroidei, sui cosiddetti recettori orfani e infine modificarne la concentrazione. Inoltre interferiscono sulla sintesi ormonale e sul legame dell’ormone endogeno con la specifica proteina di trasporto nel sangue e sulla sua metabolizzazione.

Una interferenza è stata dimostrata anche sulle tappe enzimatiche che caratterizzano la steroidogenesi e la sintesi dei neurotrasmettitori.

È interessante ricordare che, per quanto riguarda l’influenza sullo sviluppo neuro-cerebrale che costituisce una delle attuali maggiori preoccupazioni per la salute del feto, inizialmente si pensava che gli IE agissero negativamente sull’azione degli ormoni tiroidei di cui è ben nota l’importanza per un normale sviluppo cerebrale, mentre oggi si pensa che per oltre l’80% l’azione avvenga invece attraverso altri canali tanto che è stato proposto di introdurre il termine di “Endocrine and Nervous Disruptors” (ENDs).

È stata inoltre proposta anche la definizione di “metabolic disruptors” perché molti IE sono stati associati a malattie metaboliche quali la sindrome metabolica, la resistenza insulinica e il diabete di tipo 2 e di “obesogens”. Essi possono infatti agire attraverso vari meccanismi sull’adipogenesi, sulla funzione beta pancreatica e sui neuropeptidi ipotalamici che regolano sia il meccanismo fame/sazietà sia il metabolismo energetico. In particolare il BPA è in grado di attivare un importante fattore di trascrizione (proliferator-activated receptor gamma, PPARγ) che viene espresso negli adipociti ma anche nei macrofagi, epatociti ed enterociti e che regola fondamentali processi endocrino-metabolici che riguardano il metabolismo lipidico e glucidico e la sensibilità all’insulina.

È stata anche ipotizzata un’interazione con il microbiota intestinale che potrebbe agire sui meccanismi immunitari e creare situazioni di disbiosi che favoriscono le alterazioni metaboliche.

Infine una crescente serie di dati indica che gli IE sono in grado di modificare l’ampia azione di riprogrammazione epigenetica che ha luogo durante la prima fase dell’embriogenesi e della specializzazione cellulare contribuendo ad aumentare la suscettibilità alle tipiche “non communicable diseases” dell’adulto e, tramite un’azione sulle cellule germinali, aprire la strada ad una trasmissione intergenerazionale.




Quali le conseguenze
sul futuro della ricerca?

La conoscenza dei limiti metodologici delle ricerche fin qui eseguite e la conseguente difficoltà di giungere a conclusioni consolidate e universalmente accettabili sono state di stimolo allo sviluppo di nuove modalità di approccio alla problematica degli IE.

Gli aspetti più significativi possono essere così sintetizzati:

a. valorizzare gli studi longitudinali perché si è visto che l’esposizione agli IE può variare nel tempo;

b. considerare le varie tipologie di esposizione, il cosiddetto esposoma che dovrebbe prendere in considerazione la totalità delle esposizioni ambientali in modo da studiarle in contemporanea. In particolare le ricerche in corso analizzano il tipo di alimentazione, l’ambiente in cui il soggetto vive e i suoi stili di vita;

c. cercare di individuare nelle varie popolazioni sottogruppi a maggiore esposizione o maggiormente sensibili all’azione tossica per sesso od etnia o collocati in diverse aree geografiche;

d. considerare il ruolo non solo del singolo IE ma, come avviene in genere nella “real life”, di miscele di sostanze;

e. uniformare le metodologie di laboratorio e di analisi statistica;

f. accordarsi sugli eventuali modelli animali e/o sul tipo di culture cellulari;

g. incrementare la valutazione non solo della presenza e concentrazione degli IE ma anche della loro azione biologica tramite le moderne tecniche delle cosiddette “omiche” (proteomica, metabolomica, transcriptomica, ecc.). Con l’applicazione di queste tecniche è stato, per esempio, recentemente dimostrato che il PFOS altera la sintesi delle citochine nei linfociti e ciò apre la strada per meglio comprendere le conseguenze a livello immunitario e infiammatorio;

h. cercare di far convergere i dati delle varie “omiche” con quelli della genomica per giungere all’auspicabile medicina personalizzata;

i. approfondire le conoscenze sulle interferenze epigenetiche;

j. concordare un approccio tossicologico diverso da quello classico che si basa sul concetto mutuato da Paracelso che “la dose fa il veleno” nel senso che le dosi più elevate hanno un impatto tossicologico maggiore rispetto a quelle più basse e che è quindi possibile stabilire una soglia di rischio. Questo concetto di base non è valido in assoluto per gli IE perché dosi molto basse possono avere un impatto negativo sulla salute e dosi elevate bloccare il recettore ed esercitare un’azione inibente. Va inoltre considerato che le basse dosi possono agire per lunghi periodi di tempo e che gioca un ruolo fondamentale il momento dell’esposizione.

Risulta evidente come sia necessario creare gruppi interdisciplinari che possano affrontare il problema IE da varie prospettive.

Quale comportamento pratico
viene consigliato?

In attesa che l’evoluzione scientifica ci aiuti a comprendere meglio il ruolo degli IE nella patologia umana ci si pone la domanda di quale possa essere l’azione del clinico. Già nel 2009 l’Endocrine Society richiamava la necessità di applicare il “Precautionary Principle” partendo dalla considerazione che la mole di dati sperimentali, anche se non conclusivi, non poteva essere superficialmente ignorata. È stato correttamente sottolineato che ogni lavoro scientifico può essere contraddetto o modificato dal progresso delle conoscenze ma ciò non ci conferisce la libertà di ignorare i risultati scientifici e di ritardare provvedimenti preventivi necessari.8 È quindi importante che vi sia nella popolazione una conoscenza dei rischi e che i pediatri (e i ginecologi) in particolare aiutino le famiglie nel tentativo di prevenzione.




Quali i periodi più critici?

Tutto il periodo della crescita e dello sviluppo viene considerato critico rispetto all’età adulta ma negli ultimi anni l’attenzione si è particolarmente concentrata sulla vita fetale.9 La presenza di alcune categorie di IE è stata dimostrata in diversi momenti della gravidanza nel sangue, nelle urine e nei capelli materni. A livello placentare ne possono condizionare il normale sviluppo e la funzionalità endocrina e favorire reazioni infiammatorie. È stato inoltre documentato il loro passaggio transplacentare che può avvenire sia passivamente sia attraverso specifiche modalità di trasporto ancora non ben note. Le differenze notate tra concentrazioni materne e fetali fanno ritenere che non oltre il 20% delle sostanze studiate è metabolizzato dalla placenta. Possono derivarne alterazioni del decorso gravidico (aborti), patologie materne (pre-eclampsia e diabete gestazionale) e a livello fetale alterazioni dello sviluppo del sistema genitale maschile come già ricordato, diminuita crescita pre e post-natale, alterazioni epigenetiche e danni nello sviluppo neurocerebrale.10

I più importanti consigli forniti da Istituzioni pubbliche e Società scientifiche per cercare di prevenire i danni indotti dagli IE soprattutto, come più volte ripetuto, durante la gravidanza e i primi anni possono essere così riassunti:

a. preferire cibi freschi, non usare contenitori in plastica per cibi e bevande dando la preferenza a contenitori in vetro e acciaio. Evitare contenitori in alluminio con l’interno rivestito da resine epossidiche. Eliminare le pentole antiaderenti (con rivestimento in teflon) quando sono rigate. Non utilizzare posate, cannucce o bicchieri monouso di plastica (in via di eliminazione in Europa). Nell’allattamento artificiale usare tettarelle in silicone e preferire latte in polvere o latte liquido conservato in bottiglia di vetro o contenitori senza bisfenolo;

b. porre attenzione ai giocattoli in plastica. Sia in Europa sia negli USA esistono regolamenti per limitare o impedire la presenza di sostanze chimiche tossiche ma va ricordato che non esiste un punto di riferimento internazionale, che presenze di sostanze nocive sono state comunque riscontrate e che il controllo prevede la valutazione di un piccolo gruppo di materiali in cui possono non essere inclusi quelli più recentemente usati;

c. per la pulizia dell’ambiente in cui vive il bambino usare preferibilmente detergenti naturali (a base di aceto, limone, bicarbonato). Utilizzare filtri HEPA per aspirapolvere o straccio umido, per non sollevare troppa polvere. Evitare gli insetticidi chimici. Aprire le finestre per il ricambio d’aria soprattutto durante le pulizie domestiche. Evitare l’uso di candele colorate, incensi, diffusori di profumi. Mantenere puliti gli animali domestici. Pulire regolarmente pavimenti e tappeti per prevenire il formarsi di uno strato di polvere. Non usare prodotti di pulizia che contengono sostanze antibatteriche o profumi;

d. sostituire o riparare arredi che espellono schiume di rivestimento interno;

e. scegliere capi di abbigliamento con materiali naturali (cotone, lino, lana);

f. evitare prodotti per l’igiene contenenti ftalati, parabeni, triclosan, fragranze.

In conclusione, la mole veramente ampia di ricerche scientifiche focalizzate sul ruolo che gli IE possono svolgere sullo stato di salute di bambini e adolescenti, anche se non ancora giunta a risultati definitivi, tra l’altro molto difficili da ottenere in situazioni patologiche complesse e polifattoriali come quelle ricordate, non può essere ignorata dal pediatra e più in generale dal personale sanitario. Attualmente vi è un chiaro gap tra ricerca clinica di base e azione preventiva a livello di popolazione. Non esistono in letteratura, soprattutto europea ed italiana, accurate indagini sul grado di conoscenza da parte medica dei problemi ambientali e sui conseguenti comportamenti educativi. Nonostante da alcuni anni la Federazione Internazionale delle Società Ginecologiche e Ostetriche raccomandi di contribuire a prevenire i danni da contaminazione chimica durante la gravidanza colpisce il fatto che, una recente indagine francese su alcune migliaia di ostetrici/ginecologi, personale sanitario della stessa disciplina e specializzandi in medicina generale dimostri che solo 11% si sia dichiarato bene informato e che oltre il 50% non abbia fornito alcuna informazione alle donne gravide

L’autore dichiara di non avere

alcun conflitto di interesse.

Bibliografia

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